IL TRIBUNALE DI ROMA 
 
 
                         III Sezione lavoro 
 
    Nella persona del giudice designato, dott. Maria Giulia Cosentino
nella  causa  tra  Federica  Santoro  (avv.  C.  de  Marchis   Gomez)
ricorrente  e  Settimo  Senso   S.r.l.,   in   persona   del   legale
rappresentante pro tempore convenuta contumace sciogliendo la riserva
assunta all'udienza del 10 giugno 2017  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza. 
    1. I fatti di causa, l'illegittimita' del licenziamento e le  sue
conseguenze. 
    La ricorrente ha impugnato  il  licenziamento  irrogatole  il  15
dicembre 2015 dopo pochi mesi dall'assunzione,  avvenuta  formalmente
l'11 maggio 2015, e basato  su  questa  motivazione:  «a  seguito  di
crescenti problematiche di carattere economico-produttivo che non  ci
consentono il regolare proseguimento del rapporto di lavoro,  la  Sua
attivita' lavorativa non puo' piu'  essere  proficuamente  utilizzata
dall'azienda.   Rilevato   che   non   e'   possibile,    all'interno
dell'azienda, reperire  un'altra  posizione  lavorativa  per  poterla
collocare, siamo costretti  a  licenziarLa  per  giustificato  motivo
oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge 15 luglio 1996 n. 604». 
    Nella dichiarata contumacia della societa'  convenuta,  va  preso
atto  che  questa  non  ha  adempiuto  all'onere  di  dimostrare   la
fondatezza della motivazione addotta, peraltro estremamente  generica
e adattabile a qualsivoglia situazione, dunque in  sostanza  inidonea
ad assolvere il fine cui tende l'onere motivazionale (cfr. Cass. Sez.
lav. n. 7136/2002); ne' la  convenuta  ha  contestato  le  dimensioni
occupazionali  indicate  dalla  ricorrente   e   dunque   la   tutela
applicabile per legge alla lavoratrice nel caso di specie. 
    Detta  tutela  e'  costituita  dagli  articoli  3-4  del  decreto
legislativo n. 23/2015, frutto della delega contenuta nella legge  n.
183/2014, e in particolare: 
        l'art. 3 prevede: «1. Salvo quanto disposto dal comma 2,  nei
casi in cui risulta accertato  che  non  ricorrono  gli  estremi  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo  o  per  giustificato
motivo soggettivo o giusta causa,  il  giudice  dichiara  estinto  il
rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna  il  datore
di  lavoro  al  pagamento  di  un'indennita'   non   assoggettata   a
contribuzione  previdenziale  di  importo  pari  a   due   mensilita'
dell'ultima  retribuzione  di  riferimento   per   il   calcolo   del
trattamento di fine rapporto per ogni anno  di  servizio,  in  misura
comunque non inferiore a  quattro  e  non  superiore  a  ventiquattro
mensilita'»; 
        l'art. 4 prevede: «1. Nell'ipotesi in  cui  il  licenziamento
sia intimato con violazione  del  requisito  di  motivazione  di  cui
all'art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 o dello procedura di
cui all'art. 7 della legge n.  300  del  1970,  il  giudice  dichiara
estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e  condanna
il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata  o
contribuzione  previdenziale  di  importo   pari a   una   mensilita'
dell'ultima  retribuzione  di  riferimento   per   il   calcolo   del
trattamento di fine rapporto per ogni anno  di  servizio,  in  misura
comunque non inferiore a due e non superiore a dodici  mensilita',  a
meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti
la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele di cui
agli articoli 2e 3 del presente decreto». 
    Nel caso in cui il  datore  di  lavoro  non  raggiunga  un  certo
livello occupazionale, poi, la misura dell'indennita' e' dimezzata ai
sensi dell'art. 9: «1. Ove  il  datore  di  lavoro  non  raggiunga  i
requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, dello
legge n.  300  del  1970,  non  si  applica  l'art.  3,  comma  2,  e
l'ammontare delle indennita' e  dell'importo  previsti  dall'art.  3,
comma 1, dall'art. 4, comma 1 e dall'art. 6, comma 1, e' dimezzato  e
non puo' in ogni caso superare il limite di sei mensilita'». Peraltro
la ricorrente ha  implicitamente  allegato  che  la  convenuta  ha  i
requisiti dimensionali di cui all'art. 18 della  legge  n.  300/1970,
allorche' ha invocato  la  tutela  di  cui  all'art.  3  del  decreto
legislativo n.  23/1015  e  non  anche  il  successivo  art.  9,  ne'
sussistono in  atti  elementi  indiziari  indicativi  di  una  minore
consistenza occupazionale. 
    Tanto, perche' la ricorrente e' stata assunta  dopo  il  7  marzo
2015: in quanto, per gli  assunti  fino  a  quella  data,  la  tutela
avverso il licenziamento illegittimo e' costituita dall'art. 18 della
legge n. 300/1970,  come  modificato  dalla  legge  n.  92/2012,  che
prevede, per le due corrispondenti ipotesi: 
        il comma 7 per  il  caso  di  assenza  del  motivo  oggettivo
(definito come difetto di  giustificazione,  manifesta  insussistenza
del fatto posto a base del licenziamento), che richiama il comma 4  e
il comma 5 a seconda della gravita' del vizio: «Il giudice applica la
medesima disciplina di cui al  quarto  comma  del  presente  articolo
nell'ipotesi  in  cui  accerti  il  difetto  di  giustificazione  del
licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma  4,  e
10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per  motivo  oggettivo
consistente nell'inidoneita' fisica o psichico del lavoratore, ovvero
che il licenziamento e' stato intimato in violazione dell'art.  2110,
secondo comma, del codice civile. 
    Puo' altresi' applicare lo predetta  disciplina  nell'ipotesi  in
cui accerti la manifesta insussistenza del fatto  posto  o  base  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre  ipotesi
in  cui  accerta  che  non  ricorrono  gli   estremi   del   predetto
giustificato motivo, il giudice  applica  la  disciplina  di  cui  al
quinto  comma.  In  tale  ultimo  caso  il  giudice,  ai  fini  della
determinazione dell'indennita' tra il minimo e il  massimo  previsti,
tiene  conto,  offre  ai  criteri  di  cui  al  quinto  comma,  delle
iniziative assunte  dal  lavoratore  per  lo  ricerca  di  uno  nuovo
occupazione  e  del  comportamento  delle  parti  nell'ambito   della
procedura di cui all'art. 7 dello legge 15 luglio  1966,  n.  604,  e
successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base
della domanda formulata  dal  lavoratore,  il  licenziamento  risulti
determinato  da  ragioni  discriminatorie  o  disciplinari,   trovano
applicazione le relative tutele previste dal  presente  articolo»;  a
sua volta il quarto comma  quoad  poenam  dispone  che:  «annulla  il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione  nel
posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione,
dedotto  quanto  il  lavoratore  ha   percepito,   nel   periodo   di
estromissione, per lo  svolgimento  di  altre  attivita'  lavorative,
nonche' quanto avrebbe potuto  percepire  dedicandosi  con  diligenza
alla ricerca di  una  nuova  occupazione.  In  ogni  caso  la  misura
dell'indennita' risarcitoria  non  puo'  essere  superiore  a  dodici
mensilita' della retribuzione globale di fatto. Il datore  di  lavoro
e' condannato, altresi', al versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali  dal  giorno  del  licenziamento  fino a  quello  della
effettiva reintegrazione, maggiorati  degli  interessi  nella  misura
legale  senza  applicazione  di  sanzioni  per  omessa  o   ritardata
contribuzione, per un  importo  pari  al  differenziale  contributivo
esistente  tra  la  contribuzione  che  sarebbe  stata  maturata  nel
rapporto di lavoro risolto dall'illegittimo  licenziamento  e  quella
accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento  di  altre
attivita' lavorative»; e il quinto comma quoad  poenam  dispone  che:
«dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto  dalla  data  del
licenziamento  e  condanna  il  datore  di  lavoro  al  pagamento  di
un'indennita' risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un  minimo
di  dodici  e  un  massimo  di  ventiquattro  mensilita'  dell'ultima
retribuzione  globale  di  fatto,  in  relazione  all'anzianita'  del
lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti  occupati,  delle
dimensioni  dell'attivita'  economica,  del  comportamento  e   delle
condizioni delle parti, con onere  di  specifica  motivazione a  tale
riguardo»; 
        il  comma  6  per  il  caso  di   difetto   di   motivazione:
«Nell'ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato  inefficace  per
violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2,  comma  2,
della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della
procedura di cui all'art. 7 della presente legge, o  della  procedura
di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n.  604,  e  successive
modificazioni, si applica il regime di cui al quinto  comma,  ma  con
attribuzione   al   lavoratore    di    un'indennita'    risarcitoria
onnicomprensiva  determinata,  in  relazione  alla   gravita'   della
violazione formale o procedurale commessa dal datore di  lavoro,  tra
un minimo di sei  e  un  massimo  di  dodici  mensilita'  dell'ultima
retribuzione globale di fatto, con onere di specifica  motivazione  a
tale riguardo, o meno che il giudice, sulla base  della  domanda  del
lavoratore, accerti che vi e' anche un difetto di giustificazione del
licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal
presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo». 
    Ritiene questo giudice che, a fronte  della  estrema  genericita'
della motivazione addotta e della assoluta mancanza  di  prova  della
fondatezza  di  alcune  delle  circostanze  laconicamente   accennate
nell'espulsione, il vizio ravvisabile sia il piu'  grave  fra  quelli
indicati,  vale  a  dire  la  «non  ricorrenza  degli   estremi   del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo» (nel linguaggio  del
legislatore del 2015), ovvero la «manifesta insussistenza  del  fatto
posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». 
    In sintesi, se fosse stata assunta prima del  7  marzo  2015,  la
ricorrente avrebbe  goduto  della  tutela  reintegratoria  e  di  una
indennita' commisurata a dodici mensilita' (essendo  trascorsi  oltre
12 mesi fra l'espulsione e la prima udienza), ovvero,  applicando  il
comma 5 dell'art. 18, della sola tutela indennitaria fra le 12  e  le
24 mensilita'; mentre, per essere stata assunta dopo quella data,  ha
diritto soltanto a quattro mensilita', e solo in quanto la contumacia
del convenuto consente  di  ritenere  presuntivamente  dimostrato  il
requisito  dimensionale,  altrimenti   le   mensilita'   risarcitorie
sarebbero state due. 
    Anche nel caso si ravvisasse un mero vizio della motivazione,  la
tutela nel vigore dell'art. 18 sarebbe stata molto  piu'  consistente
(6-12 mensilita' risarcitorie a fronte di 2). 
2. Il sospetto di incostituzionalita' e i parametri del giudizio 
    Questo giudice ritiene che non  si  possa  dubitare,  per  quanto
esposto,  della  rilevanza  della  questione   di   costituzionalita'
dell'art. 1, comma 7, lettera c) legge n. 183/2014 e  degli  articoli
2, 4 e 10 decreto legislativo n. 23/2015: l'innovazione normativa  in
parola priva infatti l'odierna ricorrente di gran parte delle  tutele
tuttora  vigenti  per  coloro  che  sono  stati   assunti   a   tempo
indeterminato prima del 7 marzo 2015. La normativa preclude qualsiasi
discrezionalita' valutativa del giudice, in  precedenza  esercitabile
ancorche' ancorata ai criteri  di  cui  all'art.  8  della  legge  n.
604/1966 e all'art. 18 dello Statuto come novellato  dalla  legge  n.
92/2012, imponendo al medesimo un automatismo in  base  al  quale  al
lavoratore spetta, in caso di accertata illegittimita'  del  recesso,
la piccola somma risarcitoria prevista. 
    La non manifesta infondatezza della questione  emerge  pianamente
dalle  considerazioni  che  seguiranno,   incentrate   sul   ritenuto
contrasto della normativa con: 
        A)  l'art.  3  della  Costituzione,   in   quanto   l'importo
dell'indennita' risarcitoria disegnata dalle  norme  del  c.d.  «Jobs
Act»  non  riveste  carattere  compensativo  ne'  dissuasivo  ed   ha
conseguenze discriminatorie;  ed  inoltre  in  quanto  l'eliminazione
totale della discrezionalita'  valutativa  del  giudice  finisce  per
disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro; 
        B) l'art. 4 e l'art. 35  della  Costituzione,  in  quanto  al
diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene  attribuito  un
controvalore monetario irrisorio e fisso; 
        Cl ) L'art. 117 e l'art. 76 della Costituzione, in quanto  la
sanzione per il licenziamento illegittimo appare inadeguata  rispetto
a quanto statuito da fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la
Carta Sociale, mentre il rispetto della regolamentazione  comunitaria
e delle convenzioni sovranazionali costituiva un preciso criterio  di
delega, che e' stato pertanto violato. 
    Il contrasto con la Costituzione, si  badi,  non  si  ravvisa  in
ragione dell'avvenuta eliminazione della tutela reintegratoria  -  se
non per  i  licenziamenti  nulli,  discriminatori  e  per  specifiche
fattispecie del licenziamento disciplinare (art. 1, comma 7,  lettera
c della  legge  di  delega)  e  dunque  in  ragione  della  integrale
monetizzazione della garanzia offerta al lavoratore: invero la  Corte
costituzionale  ha  gia'  piu'   volte   statuito   che   la   tutela
reintegratoria non costituisce l'unico possibile paradigma  attuativo
dei precetti costituzionali di cui agli articoli 4 e 35 (cfr.  sentt.
n. 46/2000, n. 303/2011). 
    Il sospetto di incostituzionalita' viene qui  formulato,  invece,
in ragione della  disciplina  concreta  dell'indennita'  risarcitoria
che, nel compensare solo per equivalente il danno ingiusto subito dal
lavoratore, e' destinata, oggi, altresi'  a  prendere  il  posto  del
concorrente  risarcimento  in  forma   specifica   costituito   dalla
reintegrazione  (divenuta  tutela  per  pochi  casi  di   eccezionale
gravita') e dunque avrebbe dovuto  essere  ben  piu'  consistente  ed
adeguata. 
    La Corte costituzionale ha invero affermato a  piu'  riprese,  da
ultimo nella citata pronuncia n. 303/2011, che «la regola generale di
integralita' della riparazione  e  di  equivalenza  della  stessa  al
pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale»
(sentenza  n.  148  del  1999),   purche',   pero',   sia   garantita
l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del
1991): ed e' appunto questo lo specifico profilo rispetto al quale la
normativa in oggetto non si sottrae al dubbio di costituzionalita'. 
2.A. Contrasto con l'art. 3 Cost. 
    La previsione di una indennita' in misura cosi' modesta, fissa  e
crescente solo in base alla anzianita' di  servizio  non  costituisce
adeguato ristoro per i lavoratori assunti dopo  il  7  marzo  2015  e
ingiustamente licenziati e viola  il  principio  di  uguaglianza.  In
altre  parole,  il  regresso  di  tutela  per  come  irragionevole  e
sproporzionato viola l'art. 3 Cost. differenziando fra vecchi e nuovi
assunti,  pertanto  non  soddisfa  il  test  del  bilanciamento   dei
contrapposti   interessi   in   gioco   imposto   dal   giudizio   di
ragionevolezza. 
    Si rifletta, infatti,  sulle  seguenti  circostanze  sintomatiche
della mancanza di carattere compensativo dell'indennita': 
        l'assunzione della ricorrente  ha  consentito  al  datore  di
lavoro la fruizione di uno sgravio contributivo per 36 mesi  previsto
dalla legge n. 190/2014  di  importo  molto  piu'  consistente  della
condanna che ricevera' nella presente sede: di fatto  il  legislatore
incoraggia,  con  tali  misure,  comportamenti  opportunistici  e  di
dumping sociale; mentre dal canto suo  la  ricorrente  in  cambio  di
pochi mesi di lavoro e di un modesto risarcimento  avra'  molte  piu'
difficolta' a reperire una nuova occupazione in quanto  non  portera'
piu' con se' la «dote» dello sgravio; 
        la misura fissa dell'indennita' non consente  al  giudice  di
valutare in concreto il pregiudizio sofferto,  ne'  con  riguardo  al
fenomeno di free riding della  convenuta  sopra  descritto,  ne'  con
riguardo alla gravita' del  vizio  riscontrato  (la  motivazione  pur
presente, e' tautologica e generica al massimo) ne' con riguardo alla
durata del  processo,  giungendo  ad  apprestare  identica  tutela  a
situazioni  molto  dissimili  nella  sostanza;  come  si  ricordera',
proprio l'esistenza di margini di valutazione riferiti ai criteri  di
cui  all'art.  8  della  legge  n.  604/1966  costitui'   fondamento,
significativamente, della pronuncia di  rigetto  della  questione  di
costituzionalita' dell'art.  32  legge  n.  183/2010  in  riferimento
all'art. 3 Cost. (sent. n. 303/2011). 
    Le dette circostanze sono altresi'  sintomatiche  della  mancanza
del carattere dissuasivo della sanzione, poiche', come si  e'  detto,
il licenziamento illegittimo  disposto  dopo  pochi  mesi  di  lavoro
assistito dalla fruizione dello sgravio contributivo  costituisce  un
«affare» per il datore di lavoro che incentiva, anziche'  dissuadere,
comportamenti di free riding senza rischio alcuno, dal  momento  che,
appunto, l'indennita' che  il  datore  dovra'  pagare  all'esito  del
giudizio  e'  fissa,  predeterminata  e  prescinde   dalla   gravita'
dell'illegittimita', per  cui  una  «pseudomotivazione»  come  quella
all'esame (parafrasabile in  un  «ti  licenzio  perche'  ci  sono  le
condizioni per licenziarti»)  equivale,  quoad  poenam,  a  qualsiasi
altra motivazione riscontrata nei fatti come infondata. 
    E' noto, incidentalmente, che il giudice di legittimita'  ritiene
ormai superato quell'orientamento, gia' dominante, che  escludeva  il
carattere sanzionatorio (oltre  che  compensativo-riparatorio)  della
responsabilita' civile e ritiene tale aspetto pienamente  compatibile
con i principi generali del nostro ordinamento (cfr.  Cass.  S.U.  n.
9100/2015): da ultimo le Sezioni Unite il 5  luglio  2017  (sent.  n.
16601),  nel  dichiarare  la  compatibilita',  nella  ricorrenza   di
determinati presupposti, dell'istituto di  origine  statunitense  dei
c.d.  «risarcimenti  punitivi»  hanno  statuito  che   «nel   vigente
ordinamento, alla responsabilita' civile  non  e  assegnato  solo  il
compito di restaurare la  sfera  patrimoniale  del  soggetto  che  ha
subito la lesione, poiche' sono interne al  sistema  la  funzione  di
deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile»:  offrendo
una panoramica di ipotesi risarcitorie con effetti  anche  dissuasivi
di recente istituzione nella quale compare anche l'art. 18,  comma  2
della legge n. 300/1970, laddove prevede, per i casi di licenziamento
illegittimo assoggettati alla tutela reintegratoria, anche una misura
minima pari a cinque mensilita' della retribuzione globale  di  fatto
quale indennita' risarcitoria posta a carico del  datore  di  lavoro;
nonche'  l'indennita'  forfettizzata   per   l'illegittimita'   della
pattuizione del  termine  apposto  al  contratto  di  lavoro  di  cui
all'art. 32 della legge n. 183/2010 che  la  citata  pronuncia  della
Corte costituzionale n.  303/2011  ha  valutato  immune  da  vizi  di
costituzionalita'   (oltre   che   per   la   possibilita'   di   una
discrezionalita' valutativa sul quantum, come accennato) anche  sulla
base della sua  «chiara  valenza  sanzionatoria»,  evidenziata  dalla
eliminazione della possibilita' di sottrarre l'aliunde perceptum. 
    Se dunque non solo di una compensazione ma anche di una  sanzione
si  tratta,  il  giudizio  di  adeguatezza  si  impone  perche'   una
quantificazione irrisoria, come nel caso che ci occupa, si risolve in
un incentivo all'inadempimento, anziche' il suo opposto. 
    La disciplina scrutinata, in altre parole, non induce le  imprese
alla adozione di condotte virtuose,  laddove  codifica  che  un  atto
contrario alla legge e di inadempimento dell'impegno alla  stabilita'
assunto  con  la  stipulazione  del  contratto  di  lavoro  a   tempo
indeterminato   (unica   fattispecie   incentivata    sul    versante
contributivo) e' soggetto ad una  sanzione  indennitaria  di  importo
contenuto, scisso dall'effettivo  pregiudizio  provocato,  sottratto,
nella sua quantificazione, alla valutazione  del  giudice,  che  pure
continua a  valutarne  i  presupposti,  e  addirittura  inferiore  al
correlato beneficio contributivo. 
    Non a caso le  prime  analisi  dell'evoluzione  del  mercato  del
lavoro dopo l'entrata in vigore del «Jobs Act»  indicano  chiaramente
che, con l'indebolimento degli effetti del vantaggio contributivo  (a
spese  della  collettivita'),  si  e'  esaurita   anche   la   spinta
occupazionale che si intendeva incentivare con dette norme e  che  e'
oggi nuovamente affidata, di fatto, alle fattispecie  che  la  delega
legislativa intendeva rendere meno convenienti per le imprese, vale a
dire ai rapporti a termine ed in  regime  di  somministrazione  (cfr.
rapporto ISTAT sul I trimestre 2017, in atti). 
    Le conseguenze del sistema  cosi'  disegnato,  differenziando  in
modo  totalmente  irragionevole  situazioni  simili,   sono,   e   si
dimostreranno nel corso del tempo, discriminatorie in pregiudizio dei
neoassunti a prescindere dalla qualita' della loro prestazione:  dato
che coesisteranno fattualmente nella stessa organizzazione dipendenti
diversamente tutelati pur a fronte della stipulazione di un  identico
contratto di lavoro, e'  chiaro  che,  a  parita'  di  necessita'  di
ridurre il personale, l'azienda privilegera' sempre la meno costosa e
problematica espulsione dei lavoratori in regime di Jobs Act. 
    Se e' vero, infatti, in linea di principio, che  «non  contrasta,
di  per  se',  con  il  principio  di  eguaglianza   un   trattamento
differenziato  applicato  alle  stesse  fattispecie,  ma  in  momenti
diversi nel tempo, poiche' il fluire del  tempo  puo'  costituire  un
valido elemento  di  diversificazione  delle  situazioni  giuridiche,
(..),  essendo  conseguenza  dei  principi  generali   in   tema   di
successione di leggi nel tempo» (Corte Cost., 13  novembre  2014,  n.
254 in ordine al possibile contrasto con l'art.  3  Cost.,  sotto  il
profilo della disparita'  di  trattamento,  del  nuovo  regime  della
responsabilita' solidale applicabile agli appalti), e' pur  vero  che
la data di assunzione appare come un dato accidentale ed estrinseco a
ciascun rapporto che in nulla e' idoneo a differenziare  un  rapporto
da un altro a parita' di ogni altro profilo sostanziale. 
    E del resto, gli stessi teorici della labour  law  and  economics
che  hanno  ispirato  la  riforma  del  «Jobs  Act»,  nel   sostenere
(fondatamente, ad avviso di questo giudice) che la tutela avverso  il
licenziamento  illegittimo  non  deve   essere   necessariamente   di
contenuto reintegratorio, bensi' puo' essere (ed anzi a  loro  avviso
sarebbe piu' opportuno che fosse)  costituita  da  un  indennizzo  di
dimensioni prevedibili per il datore di lavoro che intende licenziare
(c.d. firing cost), non hanno mancato di rimarcare che  il  grado  di
protezione offerto - e quindi l'entita' del contenuto  «assicurativo»
del rapporto di lavoro  -  dipende  essenzialmente  dall'entita'  del
costo del licenziamento, cui corrisponde la soglia al di sotto  della
quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto  rientra  nel
rischio posto  a  carico  dell'impresa.  Sulla  stessa  linea  la  XI
Commissione lavoro del Parlamento che nella seduta  del  17  febbraio
2015 ha approvato lo schema di decreto legislativo poi divenuto il n.
23/2015, ma con la condizione che il Governo ne rivedesse le  misure,
«ritenuto che, per i licenziamenti ingiustificati  ai  quali  non  si
applica la sanzione  conservativa,  occorra  incrementare  la  misura
minima e  la  misura  massima  dell'indennizzo  economico  dovuto  al
lavoratore»: invito del tutto disatteso dal Governo. 
    Nell'intenzione dei teorici ispiratori della normativa  all'esame
nonche' nella prima versione della delega, infatti, il  contratto  «a
tutele crescenti», proprio per renderlo compatibile con il  principio
di uguaglianza e reale  disincentivo  alla  precarizzazione,  avrebbe
dovuto  favorire  l'inserimento  stabile  nel  mercato   del   lavoro
attraverso una attenuazione della tutela contro  i  licenziamenti  di
carattere meramente temporaneo, e dunque fatta  salva  l'applicazione
della ordinaria tutela ex art. 18 al termine di una prima  fase  (per
quanto lunga) del rapporto; le  tutele  del  decreto  legislativo  n.
23/2015, invece,  non  sono  affatto  «crescenti»,  giacche'  con  lo
scorrere del tempo non aumentano le garanzie ma soltanto l'indennizzo
in proporzione alla maggiore anzianita' del lavoratore, che non  puo'
piu', permanentemente, accedere alla tutele  standard  degli  assunti
anteriormente al 7 marzo 2015; e che anzi incontra un  tetto  massimo
indennitario dopo dodici anni di servizio. 
    La  disparita'  di  trattamento  irragionevole  emerge,   infine,
pianamente dal confronto: 
        non solo fra lavoratori assunti prima  e  dopo  il  17  marzo
2015, anche nella medesima azienda; 
        e  non  solo  fra  lavoratori  licenziati  con  provvedimenti
affetti da illegittimita'  macroscopiche  ovvero  da  vizi  meramente
formali, tutti irragionevolmente tutelati, oggi,  con  un  indennizzo
del medesimo importo; 
      ma anche, quanto  agli  assunti  dopo  il  7  marzo  2015,  fra
dirigenti  e  lavoratori  privi  della  qualifica  dirigenziale,  dal
momento  che  i  primi,   non   soggetti   alla   nuova   disciplina,
continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo  ben
piu' consistente. 
2.B. Contrasto con l'art. 4 e l'art. 35 Cost. 
    L'art. 4 della Costituzione («la Repubblica riconosce a  tutti  i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni  che  rendano
effettivo questo diritto») e  l'art.  35,  comma  1  («la  Repubblica
tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni») non  possono
dirsi  inverati  in  una  normativa  come   quella   all'esame,   che
sostanzialmente «valuta» il diritto  al  lavoro,  come  strumento  di
realizzazione della persona  e  mezzo  di  emancipazione  sociale  ed
economico, con una quantificazione tanto modesta ed  evanescente,  in
comparazione con la normativa ex lege n. 92/2012 ancora  vigente,  ed
oltretutto  fissa  e  crescente  in  base  al  parametro  della  mera
anzianita' quasi un ripristino di fatto della  liberta'  assoluta  di
licenziamento (la cui contrarieta' alla Costituzione e' espressamente
affermata nella sentenza n. 36/2000 della Corte  costituzionale)  che
annulla  l'effetto   «vincolistico»   derivante   dall'esistenza   di
fattispecie autorizzatorie inderogabili (giusta causa e  giustificato
motivo). 
    Le tutele dei licenziamenti, inoltre, hanno una rilevanza che  va
ben oltre  la  specifica  vicenda  del  recesso  e  la  tutela  della
stabilita' di reddito e  occupazione,  poiche'  sostengono  la  forza
contrattuale del lavoratore nella relazione quotidiana sul  luogo  di
lavoro.  Di  piu':  una  tutela  efficace   nei   confronti   di   un
licenziamento ipoteticamente ingiustificato  -  diritto  non  a  caso
espressamente sancito a livello internazionale, come meglio si  dira'
- protegge le liberta' fondamentali di lavoratrici e lavoratori,  nei
luoghi di lavoro: la liberta' di espressione e di dissenso, la difesa
della dignita' quando questa sia minacciata da superiori o  colleghi,
la difesa e pretesa dei propri diritti, la possibilita' di  attivarsi
sindacalmente se lo si desidera, ecc. 
    Il sistema del  Jobs  Act  ed  in  particolare,  per  quanto  qui
interessa,  la  quantificazione  dell'indennita'  in   discorso,   e'
all'opposto costruito su una consapevole  rottura  del  principio  di
uguaglianza e solidarieta' nei luoghi di  lavoro  che  non  puo'  non
spiegare i propri effetti anche sugli altri  diritti  dei  lavoratori
costituzionalmente  tutelati   (liberta'   sindacale,   liberta'   di
espressione eccetera). 
2.C. Contrasto con gli articoli 76 e 117 Cost. 
    L'adozione di misure adeguate e necessarie a garantire il diritto
al lavoro costituisce una specifica finalita' della politica  sociale
dello Stato che  la  Repubblica  deve  perseguire  anche  tramite  la
stipula  di   accordi   internazionali   e   la   partecipazione   in
organizzazioni internazionali (art. 35, comma 3 della Costituzione). 
    In conformita' alle previsioni dell'art. 117 Cost., la Repubblica
accetta, nell'esercizio della sua  potesta'  legislativa  sovrana,  i
vincoli  derivanti  dall'ordinamento  comunitario  e   dai   trattati
internazionali che assumono, quindi, carattere  di  norme  interposte
comunque idonee a rappresentare un parametro di costituzionalita' del
diritto interno (cfr. Corte Cost. n. 348 e 349 de1 2007). 
    L'art. 76 Cost., inoltre, prevede che «l'esercizio della funzione
legislativa  non  puo'  essere  delegato  al  Governo  se   non   con
determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto  per  tempo
limitato e per oggetti definiti», con la conseguenza  che  anche  del
rispetto di detti principi e criteri si puo'  dibattere  in  sede  di
legittimita' costituzionale dei decreti legislativi. 
    Con riferimento al  licenziamento  per  giustificato  motivo,  in
particolare, il comma 7 dell'art. 1 della legge  delega  n.  183/2014
indica quale  criterio  generale  la  «coerenza  con  la  regolazione
dell'Unione europea e le convenzioni internazionali». 
    Orbene, alla luce delle superiori considerazioni, la normativa in
esame non appare conforme: 
        all'art. 30 della Carta  di  Nizza  (che  impone  agli  Stati
membri di garantire una adeguata  tutela  in  caso  di  licenziamento
ingiustificato); 
        alla Convenzione  ILO  n.  158/1982  sui  licenziamenti,  che
prevede che, qualora  il  licenziamento  sia  ingiustificato,  se  il
giudice o gli organismi competenti a giudicare l'atto di recesso «non
hanno il potere di annullare il licenziamento e/o di  ordinare  o  di
proporre il reintegro del lavoratore o non  ritengono  che  cio'  sia
possibile  nello  situazione  data,  dovranno  essere  abilitati   ad
ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni  altra  forma
di riparazione considerata come appropriata»; 
        all'art. 24 della Carta Sociale europea, che stabilisce: «per
assicurare l'effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di
licenziamento, le Parti s'impegnano a riconoscere: a) il diritto  dei
lavoratori di non essere licenziati senza  un  valido  motivo  legata
alle loro attitudini o alla loro condotto o basato  sulle  necessita'
di funzionamento dell'impresa, dello stabilimento o del servizio;  b)
il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido  motivo,  ad  un
congruo indennizzo o altro adeguata riparazione». 
    La congruita' e l'adeguatezza del ristoro garantito ai lavoratori
e dunque il rispetto dei principi posti da  questa  ultima  fonte  e'
stato oggetto di diverse pronunce del Comitato  europeo  dei  diritti
sociali (CESD), che, pur dando atto che  la  misura  puo'  anche  non
essere di natura ripristinatoria bensi'  meramente  indennitaria,  ha
statuito che il ristoro deve essere adeguato (dal punto di vista  del
lavoratore) e dissuasivo (dal punto di vista del datore di lavoro)  e
dunque, in sostanza, costituisce conferma a livello sovranazionale di
quanto sin qui detto. 
    Con due distinte decisioni del 31  gennaio  2017,  complaints  n.
106/2014 e 107/2014 entrambi nei confronti della Finlandia, il  CESD,
ha interpretato l'art. 24 della Carta sociale europea a seguito di un
ricorso collettivo promosso dalla Finnish Society of  Social  Rights,
che aveva  lamentato  la  violazione  dell'art.  24  della  Carta  in
relazione alle disposizioni nazionali finlandesi che prevedevano,  da
un lato, le condizioni per intimare un licenziamento per giustificato
motivo oggettivo e, dall'altro lato, la responsabilita' datoriale  in
caso di recesso illegittimo. 
    Il CESD ha specificato che, ai sensi della Carta,  ai  dipendenti
licenziati senza giustificato motivo deve essere concesso un adeguato
indennizzo o altro adeguato  rimedio;  e  che  e'  ritenuta  adeguata
compensazione quella che include: 
        il rimborso delle perdite economiche subite tra  la  data  di
licenziamento e la decisione del ricorso; 
        la possibilita' di reintegrazione; 
        la compensazione ad un livello sufficientemente  elevato  per
dissuadere il datore di  lavoro  e  risarcire  il  danno  subito  dal
dipendente («compensation at a level  high  enough  to  dissuade  the
employer and make good the damage suffered by the employee»). 
    Ne  deriva  che,  in  linea  di   principio,   qualsiasi   limite
risarcitorio che precluda una compensation commisurata  alla  perdita
subita e sufficientemente dissuasiva e' in contrasto con la Carta. 
    Nella specie, la legislazione finlandese prevedeva il  limite  di
24 mesi di retribuzione quale  limite  massimo  al  risarcimento  del
danno da licenziamento illegittimo. 
    In tale contesto,  il  Comitato  rileva  che  il  limite  massimo
dell'indennizzo previsto dalla legge puo' portare a situazioni in cui
risarcimento attribuito non e' commisurato alla  perdita  subita:  ne
deriva che il plafonnement  dell'indennita'  integra  una  violazione
dell'art. 24 della Carta. 
    Anche nelle  conclusioni  del  2016  relative  alla  legislazione
italiana in vigore nel 2014 (e  dunque  alla  legge  n.  92/2012)  il
Comitato  ha  ricordato  che  e'  vietato  qualunque  tetto  tale  da
determinare alle indennita' riconosciute di non  essere  in  rapporto
con il pregiudizio subito e sufficientemente dissuasive. 
    E' vero che nella  Carta  Sociale  manca  una  Corte  con  poteri
analoghi a quelli che, a tutela dei diritti  umani,  sono  attribuiti
alla Corte di Strasburgo, in grado cioe' di  esercitare  una  vera  e
propria giurisdizione: sono infatti previsti solo reclami collettivi,
disciplinati  dal  Protocollo  addizionale  della  Carta,  ossia  una
procedura ristretta tendente al controllo degli obblighi sottoscritti
dagli Stati  all'atto  della  ratifica  e  accettazione  della  Carta
sociale europea; procedura che da' luogo, all'esito, ad  un  rapporto
al Comitato dei  ministri  nel  quale  si  stabilisce  «se  la  Parte
contraente in causa abbia o non provveduto in  maniera  soddisfacente
all'attuazione della  norma  della  Carta  oggetto  del  reclamo»,  a
seguito del quale  il  Comitato  dei  ministri,  a  sua  volta,  puo'
adottare una risoluzione (a maggioranza di  due  terzi  dei  votanti)
contenente una raccomandazione  alla  Parte  contraente  chiamata  in
causa, qualora il Comitato europeo dei diritti sociali abbia rilevato
«un'attuazione non soddisfacente della Carta» (art. 9 del  protocollo
addizionale). 
    Nondimeno, la Carta Sociale  deve  essere  considerata,  al  pari
della CEDU, quale fonte interposta (ed in tal senso  Corte  Cost.  n.
178/2015); in ogni caso, come accennato, la  ritenuta  violazione  di
principi sovranazionali vale a supportare la valutazione di contrasto
della normativa all'esame con gli articoli 3, 4 e 35 Cost.  sotto  il
profilo della giustificazione della  disparita'  di  trattamento  fra
lavoratori in cerca di occupazione  e  lavoratori  gia'  occupati  al
marzo 2015 e della violazione dell'impegno a promuovere gli accordi e
le organizzazioni internazionali intesi ad  affermare  e  regolare  i
diritti del lavoro (terzo comma dell'art. 35). 
3. Rilevanza  del  quesito  e  impraticabilita'  dell'interpretazione
conforme 
    L'accoglimento della prospettata questione  di  costituzionalita'
consentirebbe, nel caso di specie, di riconoscere alla ricorrente una
tutela compensativa del reale pregiudizio subito, che sarebbe in  tal
caso costituita dalla tutela di cui all'art. 18,  commi  4  e  7  (in
subordine, comma 5) della legge n.  300/1970  come  modificata  dalla
legge n. 92/2012; e di  porre  un  rimedio  (latamente  sanzionatorio
oltre che compensativo) al comportamento della odierna convenuta  che
evidentemente ha inteso lucrare il beneficio  contributivo  assumendo
una lavoratrice di cui poi si  e'  sbarazzata  con  un  licenziamento
pseudomotivato. 
    L'opzione interpretativa di conformita' consistente nell'ampliare
la  sfera  applicativa  della   tutela   reintegratoria   piena   con
riferimento agli «altri  casi  di  nullita'  previsti  dalla  legge»,
superando   quell'orientamento   (a   livello    nazionale    tuttora
maggioritario) che esige la dimostrazione, da parte  del  lavoratore,
del motivo illecito determinante la condotta  del  datore  di  lavoro
(art. 1345 c.c.) appare una forzatura interpretativa (consentita solo
se la Corte costituzionale adita dovesse indicare tale  via  con  una
pronuncia interpretativa di rigetto del quesito): tale opzione  nella
sostanza si  risolverebbe  in  una  equiparazione  fra  licenziamento
ritorsivo, ovvero in frode alla legge, e  licenziamento  (gravemente,
ma  solamente)  ingiustificato.  In  assenza   di   riscontro   nelle
conclusioni del ricorso, essa  appare  anche,  nel  caso  di  specie,
contrastare col principio che la causa petendi  dell'azione  proposta
dal  lavoratore  per  contestare  la  validita'  e  l'efficacia   del
licenziamento va individuata nello specifico motivo di illegittimita'
dell'atto dedotto nel ricorso introduttivo (cfr. da ultimo Cass. sez.
lav. n. 7687/2017), per cui  appare  viziata  da  ultrapetizione,  in
ipotesi, la declaratoria di  nullita'  del  licenziamento  in  quanto
ritorsivo, sia pure sulla base di circostanza emergenti  dagli  atti,
allorche' il ricorrente abbia dedotto soltanto la mancanza di  giusta
causa (cfr. Cass. sez. lav. n. 19142/2015). 
    Questo giudice non si riconosce, infine, il potere,  in  sede  di
interpretazione  conforme,  di  determinare,  in  base   al   proprio
personale  convincimento,   la   sanzione   adeguata   in   caso   di
licenziamento illegittimo, ne' tanto meno il potere di  applicare  al
caso concreto una norma diversa da quella  prevista  dal  legislatore
(in  ipotesi  applicando  l'art.  18  legge  n.  300/1970,  in  luogo
dell'art.  3   decreto   legislativo   n.   23/2015),   non   potendo
l'interpretazione conforme risolversi, com'e'  noto,  in  un  effetto
abrogativo. 
    In  conclusione,  ed  alla  luce  delle  esposte  considerazioni,
ritiene  questo  giudice  di   dover   ritenere   rilevante   e   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
delle norme indicata in dispositivo in  relazione  ai  profili  sopra
esposti. 
    Il giudizio in corso  deve  quindi  essere  sospeso  e  gli  atti
rimessi alla Corte costituzionale.